Un film sull’edonismo incestuoso passato per la Mostra di Venezia, un libro sull’attrazione verso la violenza, la morte, l’omosessualità al cinema e la sua infanzia in una fattoria. Bruce LaBruce risponde alle domande di Chiara Papèra in esclusiva per Toh!
Pioniere del porno come genere cinematografico, Bruce LaBruce bazzicava i festival internazionali già dagli esordi negli anni ’80; si insinuò nella scena punk soverchiandola e creò una nuova branca, il Queer Core, un esperimento culturale estremamente politicizzato che aveva e ha lo scopo di contrapporsi alla folta schiera di nazi-punk.
Con quest’ordine appena creato, Bruce ha la possibilità di mostrare identità di genere non conformi, sessualità esplicite e inclusione delle minoranze.
La sua controversa cinematografia fa discutere da quarant’anni e non si arresta neanche con l’ultimo Saint-Narcisse, condito con intrecci inter-famigliari e scene erotico-religiose.
Siamo nel Canada del 1972 quando Dominic (Félix-Antoine Duval), alla morte della nonna che lo ha cresciuto, non solo scopre che la madre non è morta di parto e che è viva e vegeta, ma anche di avere un gemello in monastero.
Questo protagonista così edonistico ed egoista fa allora di tutto per incontrarlo, intraprendendo poi con lui una relazione.
I due faranno visita, insieme, alla genitrice – lesbica, strega e velatamente incestuosa pure lei – per vivere finalmente tutti felici e contenti, con tanto di figli (chissà di chi) in una deliziosa casetta nel bosco.
Ritorni dalla tua terza partecipazione alla Mostra del Cinema di Venezia, dopo che nel 2013 hai presentato Gerontophilia e nel 2016 sei stato giudice di gara. Come si sente un regista punk in un festival così canonico, con un film che peraltro affronta i temi dell’incesto e dell’abuso nella Chiesa?
Mi considero un regista avanguarde, ma sono comunque passato dai maggiori festival fin da subito.
All’inizio degli anni ’90 la mia opera prima venne accolta nei circuiti mainstream, tre dei miei film sono passati dal Sundance e sono stato due volte alla premiere del Festival di Berlino e una a Locarno: non è quindi così insolito per me.
Certo non definirei questo film mainstream, ma è sicuramente più accessibile e più narrativo di altri, senza la mia solita sotto-trama propagandista.
Inoltre è un melodramma, che è un genere popolare: quindi penso che lo si possa considerare tanto mainstream quanto punk.
Anche in questi contesti, film come i tuoi passano senza filtri censori: pensi che il pubblico si sia abituato a scioccarsi o che non sia più il sesso a scioccare?
Quando uscì Gerontophilia le persone trovavano scioccante che quel film fosse mio: perché non era affatto scioccante. Do ancora valore allo shock per il gusto di scioccare, e penso che sia perfettamente legittimo e di intrattenimento, John Waters ci ha scritto un libro.
Penso che quello che sciocca oggi sia portare un messaggio sovversivo essendo sottili, e in un certo senso il finale di Saint-Narcisse è scioccante perché implica che tutti i membri della famiglia scopino tra di loro – o comunque siano coinvolti romanticamente.
Se ci pensi, le implicazioni del film sono più scioccanti di qualsiasi singola scena, per esempio quella in cui il prete spinge le frecce dentro al corpo del ragazzo. La consideravo una scena quasi gore o splatter, ma poi ho pensato che tutti ormai hanno visto tutto.
In una trama così carica di violenza, morte e scandalo, l’incesto è utilizzato come sollievo comico: quasi a dire che, paragonato ad altre vicende, sia la situazione più serena.
Per me l’incesto è anche romantico. Un trade mark nei miei film è parlare di cose estreme con un tocco leggero – o così mi è stato detto.
E mi piace essere inaspettatamente romantico a proposito di quello che altre persone percepiscono come taboo o fetish. Il twincesto, tra l’altro, è la più accettabile forma di incesto, perché la gente riesce a capire l’attrazione per sé stessi e il desiderio di fare l’amore con sé. Ed è molto popolare nel porno gay. Insomma… non così popolare, ma comunque un sottogenere che esiste, e trattarlo in maniera romantica e quasi religiosa forse è proprio scioccante.
Hai dichiarato che tutti i registi dovrebbero fare almeno un film sui gemelli o i sosia, sull’incesto, su una capanna nel bosco, sulle lesbiche che vivono allo stato brado, su un motociclista e sull’abuso di un sacerdote: ma chi potrebbe effettivamente farlo – o l’ha già fatto – oltre a te?
Io adoro Almodóvar, che è molto bravo a rendere melodramma qualsiasi aspetto di una trama.
L’idea di Saint-Narcisse nasce nel 2013: pur lavorando ad altre produzioni hai detto che è stato il tuo lavoro primario in tutti questi anni. Qual è stato l’aspetto più impegnativo del realizzarlo e da dove è nata la storia?
Subito dopo Gerontophilia, abbiamo lavorato alla sceneggiatura di Saint-Narcisse per 5 anni: la storia originale era mia e di Martin Girard, altro bravissimo regista del Québec. Volevo fare qualcosa di molto complesso narrativamente, che si svela e rivela e che sorprende senza dover spiegare troppo, che è stata anche la parte divertente del processo. Tutto è iniziato proprio dal twincesto: ogni mio film si basa su una forma di fetish come riverenza verso l’oggetto del desiderio in un modo quasi spirituale. Poi ho pensato all’idea del gemello come metafora di Narciso.
Nel mondo gay trovi spesso due tipi di uomini: uno attratto dall’opposto di sé stesso, l’altro attratto dalla sua copia, chiamata twinning, e questi ultimi sono così simili e si vestono uguali…
Ovvio che alla base ci sia il desiderio di voler fare l’amore con sé – e penso che con i social media non finirà mai questa triste costante del mondo gay di fissare il cellulare assorbiti dalla folle vanità del quesito «in quale foto ti piaccio di più?». In un certo senso è un costante bisogno di affermazione per coprire l’insicurezza – non che io mi dispiaccia di guardarmi allo specchio, ma insomma… Poi ho iniziato a pensare a Orfeo, il film di Cocteau, e su come lui applichi il mito a uno scenario più contemporaneo, qualcosa che anche io avevo in mente.
Il mito di Narciso è probabilmente il soggetto più rilevante da trattare al giorno d’oggi.
A proposito della nuova regolamentazione anti-discriminatoria introdotta dall’Academy – che impone ai film, per essere candidati agli Oscar, di includere almeno due minoranze nella troupe e nella trama – c’è chi ha parlato di rainbow washing: pensi che possa invece essere un passo verso l’inclusione?
Non penso che queste siano cose che si possono imporre. Se l’artista non crede autenticamente nell’inclusione, allora è solo window dressing – e non credo nemmeno che queste regole potranno avere un impatto nell’industria, onestamente. Quello a cui mi oppongo di più, però, è che a un certo punto i personaggi gay e lesbo hanno iniziato a essere presenti nelle produzioni di Hollywood attraverso un’unica singola rappresentazione di “ciò che è gay”: e sono contro questa pre-censura che crea una falsa idea di come siano gli omosessuali e come siano percepiti.
Capisco che non si possa sempre sostenere la causa, ma non devono esserci nemmeno personaggi pre-impostati che descrivono parzialmente lo zeitgeist.
L’idea che il ritratto dei gay debba essere necessariamente positivo mi sembra orribile, tanti dei miei personaggi preferiti nel Cinema sono gay cattivi – e sono deliziosamente cattivi perché sono stati repressi forzatamente, hanno subito torti, la loro cattiveria è consequenziale.
Ogni atteggiamento sessuale torna indietro in maniera mostruosa e quindi penso che la rappresentazione debba esserci, certo, ma debba essere autentica.
È diverso se si parla di assumere nella crew artisti e professionisti di minoranze, penso che sia un’ottima cosa perché lì il problema è sistematico. Ma in termini di personaggi, cosa potrebbe apportare di diverso? Sono stanco dei gay che scoprono loro stessi, scoprono loro stessi dagli anni ’90, li chiamavo gay cheerleading films già allora.
Non mi piace quando tutto va bene, tutti sono felici, sono tutti positivi e se hanno problemi li risolvono: io preferisco Morte a Venezia a questa roba!
Cosa suggerisci allora?
Per gli ultimi due film, The misandrist e Gerontophilia, ho usato il colorblind casting: i due protagonisti erano stati scritti come ruoli generici, senza pensare a un interprete bianco o nero. Ci sono molti ruoli che non sono pensati per un’etnia precisa: scegli l’attore che fa l’audizione migliore. In Gerontophilia abbiamo finito con l’affrontare non solo il taboo dell’amore con differenza di età ma pure con quello della coppia mista, e il taboo generazionale è rimasto comunque più preponderante di quello razziale. Il colorblind casting ha dunque funzionato. Credo che imporre regolazioni sull’arte agli artisti radical non vada mai a buon fine, perché avere così tante regole su cosa puoi o non puoi fare frena la libertà.
In termini di accettazione, credi che l’ambiente punk sia ancora il più inclusivo?
Non sono più così coinvolto nel movimento punk ormai, ma quando lo ero lo trovavo molto più inclusivo. Ci sono gruppi con membri trans, molte più band miste che sono estremamente politiche. Il Queer Feminist Porn Festival a Barcellona è interessante, radicale, queer, etnicamente inclusivo, antiageist e body positive. Penso che il punk abbia fatto dei gradi passi avanti.
Film a parte, prima di Halloween è partita la prevendita di Death book, il tuo quarto libro: chi lo ispira e perché pubblicare proprio adesso una raccolta di foto scattate in trent’anni?
L’editore Baron mi ha contattato chiedendo se mi volessi occupare del secondo volume di una serie di libri chiamata, appunto, Death book: io ho scelto un’interpretazione piuttosto letterale del tema, leggendolo come l’opportunità di raccogliere alcune tra le foto e polaroid più estreme che abbia scattato sul tema del sesso e della violenza. Come spiego a Slava Mogutin nell’intervista introduttiva al libro, in quanto frocio in una fattoria del Canada ho assistito a molto sesso e molta violenza crescendo, cosa che ha avuto un profondo effetto su di me; le mie opere sono influenzate dal gore e lo splatter dei B-movies degli anni ’70 che uscivano mentre io ero ragazzo. Questo libro spazia fra 25 anni, e in questi anni l’accesso a immagini orribili e grottesche di violenza e morte sono gradualmente divenute abbastanza comuni.
Quindici o venti anni fa non avresti mai potuto vedere video di gente uccisa su internet: ora non solo non è strano ma anzi è usato per fare clickbait. Nella mia arte e nel mio cinema presento questo tipo di immaginario in modo iperbolico, con senso ironico e in modo camp, ponendo l’attenzione su come il sesso e la violenza siano quotidianamente usati come un seducente narcotico nella cultura pop e nella moda, per vendere.
Lo si può considerare quindi un libro autobiografico?
Sì. Per esempio, da bambino ho assistito a un terribile incidente tra camion nella strada davanti alla fattoria. La vittima era stesa nel mezzo della carteggiata, le sue scarpe e i calzini erano stati scagliati via nell’impatto, io ho sentito i suoi lamenti di morte. Ho ricreato questa scena nel film L.A. zombie, le foto che ho scattato sul set sono qui dentro. Ma nella mia versione uno zombie alieno scopa il cuore dell’uomo morto e lo riporta in vita: suppongo sia un modo di fare i conti con lo stress post-traumatico. E poi molti dei modelli sono miei amici: alcuni di loro sono morti e ho dedicato il libro proprio a quelli che non ci sono più.
Davanti a questi scatti la morte sembra affascinante, non spaventosa: il nostro interesse è voyeuristico nonostante la violenza?
Non considero il mio lavoro morboso o nichilista. È troppo leggero e timido per essere percepito in quel modo. Molte delle foto e delle polaroid sono state scattate durante le performance che ho fatto nella mia galleria, o durante eventi d’arte dove travesto i modelli da terroristi, rivoluzionari o zombie rivoluzionari, e li cospargo di sangue finto spesso in modo sessualizzato. L’atmosfera di queste prestazioni non è mai negativa o buia, ha un senso più divertente, carnevalesco. Spesso coinvolgo membri del pubblico – alle volte nudi, che ricopro di sangue e che posano con i modelli. È un’opportunità di catarsi, di liberazione dalle ansie e dalle paure verso quel tipo di violenza che è presentata nei mass-media. Come i video dell’ISIS che decapita gli ostaggi, prodotti come pubblicità hollywoodiane: quel tipo di violenza che fruiamo quotidianamente nei telegiornali.
Che significato ha per te la morte?
Affrontare il dolore e la morte nei miei lavori è terapeutico, ed è anche un modo per interfacciarmi con la mia mortalità. Questo processo mi rende più filosofico: non solo capisco che la morte è inevitabile, ma anche che è necessaria per per dare senso alla vita. Puoi apprezzare davvero la vita solo prendendo atto che è qualcosa di prezioso che un giorno finirà.
Hai altri film porno in programma?
Ho sempre continuato entrambe le produzioni parallelamente. Le persone che vedono i miei film tendono a volere dividere le due cose, dicono: «all’inizio facevi porno e poi sei diventando più professionale e accettato dal modello dell’industria».
In ogni caso artisti e registi porno rimangono comunque artisti ed è legittimo considerare il porno un genere, rigetto la narrativa per cui devi diventare commercialmente sempre più di successo e devi usare budget sempre più grandi.
Ho fatto film quasi senza budget e film molto impegnativi e strutturati e alle volte i film senza budget nascono perché nessuno li finanzia, altre volte perché nel frattempo si lavora a qualcosa di più grosso, altre ancora perché c’è bisogno di libertà totale e non si vuole un finanziatore che dica cosa fare. Con Saint-Narcisse non è successo questo, nessuno mi ha detto cosa potessi o non potessi fare.
C’è ancora vita per il movimento Queer Core?
Pensavo recentemente a una linea di scarpe che Gucci ha lanciato un paio di anni fa e che si chiamava appunto Queer Core. Non mi interessava troppo il fatto che avessero usato quel nome, ma le scarpe non avevano nulla a che fare con il Queer Core né ne rappresentavano l’essenza. Pensai che stessero solo usando male il nome, quindi non me la sono presa troppo: te lo racconto indossando i miei occhiali Gucci che peraltro indossavo anche alla première a Venezia.
Vedo che che c’è molta nostalgia di quello che abbiamo fatto negli anni ’80, che fu effettivamente un momento stupendo di espressione libera e inclusività, ma penso che abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo creato dai giovani che sia militante e più coeso, anche a livello estetico.
Penso al Black Lives Matter Movement – ma anche in questo caso i politici se ne stanno appropriando mitigandone il valore. I movimenti giovani si basano sull’energia e sul “me ne sbatto”, e penso che emergerà qualcosa di sempre migliore.